Muspelheim o della morte di una civiltà.
Il sistema di Mu Librae è un sistema morente. La nana bianca che le dà il nome sta lentamente divorando i pianeti in orbita attorno ad essa. Ne resta solo uno quando arriviamo: Muspelheim, gigante gassoso, che combatte la sua personale e disperata battaglia per ritardare l’inevitabile fine; ogni orbita più vicina della precedente, ogni anno più vicino all’ultimo.
Quando ci dicono che dobbiamo immergerci in quell’atmosfera pensiamo ad uno scherzo, invece sono seri: “non troppo tempo” spiegano “c’è qualcosa che emette segnali, dobbiamo sapere cos’è. Entrate ed uscite, una cosa rapida”. Si, certo; è facile parlare così quando a rischiare sono altri; ma se non fosse per il Dragonfly saremmo morti carbonizzati prima ancora di arrivare sull’obiettivo. Invece ce la facciamo quasi con disinvoltura e ci agganciamo al bersaglio: un immenso relitto butterato dalle piogge di piombo fuso, cotto dalle radiazioni, ma in qualche incredibile modo ancora sospeso negli strati superiori di Muspelheim. E’ proprio là dentro che dobbiamo entrare.
A poco a poco l’immensa astronave ci svela i suoi segreti e detta così sembrerebbe una passeggiata. Invece è una missione quasi impossibile. il relitto – come il pianeta che lo sballotta tra tempeste di metalli fusi e radiazioni – sta cadendo a pezzi. C’è ancora qualcosa che lo mantiene sospeso ma i sistemi di sostentamento vitale hanno ceduto da un pezzo. Camminiamo al buio e nel vuoto, con l’inquietante ticchettio dei contatori geiger negli elmetti. Poi qualcosa ci attacca – la bestia di Golfball sembra trovarsi a suo agio anche nelle vaste sale di questa astronave deserta. Come ci è arrivata? Attacca ed attacca ed attacca ancora; uno di noi in particolare – Agata Andrana, veterana della sezione scientifica – viene ferito gravemente.
Riusciamo finalmente a penetrare nel cuore dell’astronave dal quale intravediamo altre enormi sale e corridoi pieni di cadaveri. Cadaveri ovunque, ammucchiati gli uni sugli altri. Quest’astronave è in realtà un gigantesco e terrificante cimitero.
Non saremmo probabilmente in grado di percorrere i chilometri di corridoi che ci separano dal lander ma la sezione ricognizione tira fuori un altro coniglio dal cappello: un pod di fuga nel quale possiamo entrare, che ci porterà dritto fuori dal rottame morente. In quel momento – a un soffio dalla salvezza – Agata cade e stavolta non si rialza. E’ il primo membro dell’equipaggio che muore durante un’esplorazione planetaria. Rientriamo sulla Vanguard feriti ed esausti, con l’amaro in bocca e la poltroncina vuota che cerchiamo di non guardare. Ne è valsa la pena? ci chiediamo.
Gli scienziati della Vanguard tradurranno le pietre incise raccolte nel ventre del relitto, le scritte che abbiamo olografato per loro, i campioni organici e del relitto, e dopo qualche giorno produrranno un rapporto che saremo particolarmente interessati a leggere.
Non avremmo dovuto. L’orrore, l’orrore. Per gli altri è più sopportabile ma noi abbiamo camminato per quelle sale, abbiamo visto le montagne di cadaveri. Leggendo il rapporto abbiamo VISTO quello che è successo.
Quella non era un’astronave ma un’Arca. L’Arca della salvezza di un pianeta interno, che ospitava una civiltà altrettanto evoluta di quella incontrata su Idemian. Davanti alla letale espansione di Mu Librae essi costruirono un’immensa astronave per salvare sé stessi e la loro civiltà. Forse aspettarono troppo; forse non calcolarono bene la traiettoria di fuga o male interpretarono la dinamica delle tempeste solari. L’Arca fu colpita e danneggiata; costretta a riparare nell’atmosfera di Muspelheim ed impossibilitata a scappare.
Quanto sopravvissero? Questo il rapporto non lo dice. Lascia alla nostra terrificata immaginazione capire cosa successe quando la loro casa si trasformò prima in forno e poi in bara nell’arco di anni o forse decenni.
Davanti all’enormità di questa tragedia – un’estinzione planetaria al rallentatore – la morte di Agata perde quasi di peso; ma ci piace immaginarla come un soldato morto sul campo di battaglia per salvare la Terra da una fine simile. Noi tre – suoi compagni nell’ultima missione – ci riuniamo davanti al suo ologramma nel muro della Memoria, giurando che non scenderemo sui prossimi pianeti con meno coraggio di lei o meno disposti al sacrificio per salvare la Terra. Gal aggiunge “la Terra o altri pianeti”, e non lo capiamo.
La prossima tappa nel volo della Vanguard è il sistema Kelu-8. Il pianeta abitabile del sistema, Alba Eterna, prende il nome dal bizzarro comportamento svelato dagli scanner planetari. Enormi città semoventi corrono lungo la linea di separazione tra giorno e notte. Come ma soprattutto… perché? Kelu-8 è una gigante rossa che irraggia calore e radiazioni in tutto il sistema. Supponiamo che la vita sia impossibile sia di giorno che di notte, e che solo la stretta fascia dell’alba possa garantire condizioni di temperatura almeno accettabili. Lo scopriremo a breve.